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“A.I.”: l’intelligenza sociale spiegata a bastonate!

L’orizzonte della mancanza

– Ho spesso ricordato una poesia dei primi anni del Novecento di Salvatore Quasimodo, forse la più conosciuta e toccante tra quelle scritte dal poeta: «Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera».

I significati che sono stati attribuiti a questa poesia sono molti. Tutti profondi e stimolanti. Eppure, credo che le diciassette meravigliose parole usate dall’autore siciliano debbano colpire chi le legge soprattutto per quello che alle stesse manca: in esse è assente la dimensione plurale di un “noi”. “E’ subito sera” dovrebbe affascinare anche per tale assenza che incuriosisce e dischiude un orizzonte in cui un ‘‘protagonista assente’’ apre una scena gravida di perplessità.

È un’assenza paradossalmente ingombrante quanto illuminata poiché invita a riflettere sul significato (più) ‘‘reale’’ di due parole semplici e cruciali, da tempo inevitabilmente abusate o, peggio, opacizzate in una sorta di forzata neutralità sociale che non può rinunciare di fare dell’una il mal celato presupposto dell’altra: l’“Io” e il “Noi”.

Ripetutamente “Noi

Di recente ho riletto alcuni libri blasonati della prima metà del Novecento (citarli sarebbe irriverente). Opere scritte da grandi personalità: i “padri” della continuazione del cosiddetto ‘‘pensiero occidentale’’. Ho cercato di contare il numero delle volte che in tali testi la parola ‘‘noi’’ apparisse o, quanto meno, le volte che il senso di un “noi” in essi si rivelasse. Senso del “noi” inteso come concetto o pensiero attribuito alla dimensione plurale di una certa collettività, piuttosto che ad una qualsiasi aggregazione umana, o categoria professionale o religiosa e così, a proseguire, per tutti gli esempi presenti e ben descritti in tali magnifiche monografie che si appellano ripetutamente ad una dimensione plurale iscritta al “noi”.

Nel pensiero di questi memorabili scrittori novecenteschi il “Noi” è ripetuto, evocato, alluso e sotteso centinaia di volte, tanto da diventare la dimensione predominante che silenziosamente accompagna tutto il percorso dei loro libri. E non una volta, però, che il “noi” sia spiegato o, almeno, sottoposto ad una analisi critica, foss’anche sommaria o fanciullesca. In simili testi il “Noi” c’è, esiste e, dunque, tanto dovrebbe bastare: è con piacevole naturalezza che al Lettore viene a priori assegnato il ruolo di chi avrebbe già assimilato il sottofondo che regge i ragionamenti dei magnifici autori. Pensatori che ancora oggi animano buona parte dello studio di molte fondamentali relazioni tecnico-sociali attribuite all’umanità.

In simili testi, pertanto, gli occidentali appaiono semplicemente raffigurati in un “noi”, gli adolescenti vengono rappresentati nel “noi”, i figli, gli anziani, i cristiani, gli ortodossi, le madri, gli scienziati, i tecnici sono spinti ogni volta in un “noi”: e così via. Grandi autori che si sono sempre differenziati gli uni dagli altri ma che restano uniti dall’assenza del bisogno di spiegare la dimensione del loro ripetuto “Noi”: il concetto plurale si spiegherebbe da sé; si dovrebbe sentire da sé poiché ritenuto metabolizzato dai lettori che, a loro volta, sono guardati dall’autore del libro, o ‘‘dal libro stesso’’, come una pluralità di individui racchiusi in un “noi”.

Ed è così che il desiderio di chiedere chi è “Noi’’ aumenta. 

È forse un “Noi” chi da solo legge le magistrali pagine di un libro alla luce di una lampada o grazie alla luminosità del proprio telefonino tecnologico su cui scorre un testo digitale? Dove si incontrerebbe in ciò un “noi”? E perché mai si dovrebbe spiegare ogni volta da sé?

Possiamo chiedercelo? Credo di sì. È un’irriverenza da concedersi.

‘‘Io’’ incontra ‘‘Noi’’

Per poter fare incontrare i “due grandi protagonisti necessari” del moderno, mutevole e variegato palcoscenico ‘‘umanizzato’’ occorre tentare di tratteggiare l’‘‘Io” a partire dal sorgere della consapevolezza che ha di sé ogni individuo. Bisogna perciò muovere dalla “consciènzia” o dal “consciere” di cui all’ampio significato attribuito alla parola latina “scire”: sapere.

Pare fuori di dubbio che solo l’individuo che sa di sé può segnare l’inizio di una prima dimensione del “Noi”.

L’iniziale dimensione del ‘’sé’’ è percepita in un inizio biologico istintivo. Essa si colloca alla nascita clinica di ogni individuo: al sorgere della prima sensazione di mancanza di protezione del liquido amniotico materno; con l’angoscia del movimento fattosi più leggero in uno spazio diverso; alla percezione della prima sete sino alla fatica della ricerca del seno.

Ma è dunque questa una prima ombra di definibile coscienza? Si può provare a rispondere alla insidiosa domanda così: per l’‘‘Io’’ essa lo è, poiché costituisce un passo verso la percezione di sé; per il “Noi”, invece, il primo sentire di sé costituisce un mero presupposto tanto importante quanto statico poiché incapace di trasformare l’iniziale percezione di sé in una spinta verso una dimensione plurale ultra-materna.

Il passaggio obbligato verso un più ampio “Noi

È infatti solo a partire dai primi mesi di vita che ogni bambino adombra segnali di reazione allo sguardo di chi è stato gettato in vita prima di lui e dalle cui cure dipende la sua esistenza: così, ognuno, è gradualmente educato ad uscire dalla dimensione innocente della propria iniziale “follia” e dalla protezione dell’amore incondizionato di chi lo ha generato. Ad ognuno si svela un passaggio che non offre alternative. Diviene necessario comprendere il prima possibile che esiste un modo corretto ed uno ritenuto sbagliato di stare in un certo mondo in un determinato momento e, soprattutto, che c’è una dimensione plurale molto forte, imposta da ciò che si trova al di fuori e al di sopra del nucleo familiare ristretto.

La differenza tra queste due prese di coscienza è tanto radicale quanto opacizzata.

Entrambe raffigurano l’abito sociale di un “Noi” che, tuttavia, appena posto sotto una qualsiasi luce – di una lampada o del sole, non importa – risulta talmente diverso da realizzare una contrapposizione ontologica: il primo “Noi” è primario poiché cercato mediante l’espressione pura della volontà di vita; il secondo “Noi” è imposto e diviene necessario solo in quanto voluto da una dimensione plurale che va oltre l’insieme degli individui di cui è apparentemente composta e che, sempre di più, si oppone alla volontà di vita negli anni in cui “i molti” la potrebbero esprimere con maggior vigore.

Questa differenza è delineabile anche più semplicemente.

Una radicale diversità

L’istintivo “Io” del bimbo, formatosi nella percepita sofferenza di sé a partire dalla mancanza delle condizioni amniotiche, rincontra con naturale favore quello della madre in tal modo formando un primo “Noi”: l’unico che non necessiti d’educazione e, dunque, in definitiva, dell’ausilio dell’artificio. Di contro, l’indotto “Noi”, quello imposto dalle necessarie e mutevoli regole dell’educazione sociale, non ha nulla di realmente naturale e, a quanto pare, niente che possa attrarre, tanto meno in senso biologico. Anzi, la dimensione del “Noi” verso la quale si viene educati ad essere reclusi è la stessa che ogni individuo tenta di utilizzare nel corso della propria vita per liberarsi e riaffermare un proprio ‘‘Io’’ sociale che dipende totalmente dall’ambiente ‘‘artificiale’’ in cui si cerca di farlo primeggiare, spesso senza riuscirvi.

Da ciò il possibile contorno di una prima differenza di base: c’è un “Noi” attraente ed un “Noi” respingente. Quest’ultimo, nel mentre educa, pone tra le imposte forme di educazione il proprio fascino attrattivo che irradia una luminosa promessa di acquisizione di potenza sociale già inscritta nella stessa educazione e che, a sua volta, è retta da mutevoli coefficienti morali di tipo esclusivamente convenzionale.

Quindi, andando più a fondo nell’essenza delle due dimensioni, si potrebbe sostenere che il primo “Io” è naturale al pari del primo “Noi” (quello primario) e che, invece, dal secondo “Noi” in poi, lo scenario plurale realizzato è artificiale: sempre più artificiale in realtà soprattutto a causa di una costante tecnica presente nelle mani di ogni individuo, la cui essenza immateriale è talmente forte ed inebriante da esserlo sin troppo. Essa è tanto forte e profonda da contraddire la funzione originaria della tecnica: quella di attribuire potenza a chi la usa.

La dimensione individuale e quella plurale al cospetto della tecnica moderna

Ma se è vero che la tecnica, sia essa antica o moderna, si può definire come l’utilizzo di strumenti o mezzi, governati sotto la più netta razionalità per ottenere scopi con l’impiego minimo di risorse (mezzi), allora pare indispensabile trascinare al cospetto della moderna tecnologia l’‘‘Io’’ e il ‘‘Noi’’. Però, prima, bisognerebbe mettersi d’accordo su che cosa sia la moderna tecnologia.

Ebbene, se il ramo di un albero o una pietra sono stati i primi strumenti (definibili eso-somatici poiché) tanto vicini al corpo da costituirne un prolungamento utile a raggiungere primordiali scopi, oggi la più moderna tecnologia potrebbe essere definita come ‘‘la massima distanza raggiunta dal mezzo ritenuto utile rispetto all’uso degli strumenti eso-somatici”.

Invero, lo scopo intrinseco ed immediato d’uso di un bastone è identico a quello che ci si propone di ottenere utilizzando un algoritmo sofisticato che applica la cosiddetta “Intelligenza Artificiale”. Infatti, all’apparenza e per i più, ciò che in questi due esempi cambia non è il fine ultimo sotteso ai due differenti mezzi ma la mera capacità di poterli creare ed utilizzare.

Un ramo può essere lavorato e poi brandito per sferrare un colpo più duro di quanto si possa fare con il pugno della propria mano. E al pari di ciò, la creazione e messa in funzione di un moderno algoritmo sottenderebbe di fondo e pur sempre il primario uso di un bastone. In entrambi i casi, si badi, lo scopo primario intrinseco all’uso del mezzo è diverso dallo scopo finale che ci si propone di ottenere mediante il suo utilizzo. L’uso del mezzo, infatti, è qualche cosa di diverso dal fine ultimo desiderato e mediato dal mezzo stesso. E tuttavia si dice ancora che sia impugnando un bastone, sia applicando un algoritmo, l’essenza d’uso (dei due mezzi: bastone e algoritmo) rimarrebbe la stessa. Questo sarebbe – e nemmeno tanto all’incirca! – il risultato qualificatorio a cui è giunta la migliore dottrina filosofica degli ultimi duecento anni discutendo intorno all’‘‘essenza della tecnica’’.

Rispetto a tale epilogo, è la stessa moderna tecnologia che può aiutare ad alzare un nuovo lembo di verità mettendo in luce un elemento trascurato ma centrale. Infatti, il sopravanzare della tecnologia rende possibile – e al contempo necessario – compiere una riflessione sull’essenza dell’uso immediato del mezzo prima che lo stesso sia qualificato come tale poiché ritenuto subordinato allo scopo. La tecnologia è oggi talmente distante dalla metodologia d’utilizzo dei primi strumenti eso-somatici da incidere profondamente sull’uso primario immediato del mezzo.

Eppure, si pensa ancora di brandire un bastone per (solo poi) colpire e, al pari, di utilizzare l’algoritmo per (solo poi) velocizzare la ricerca di una persona mediante il riconoscimento biometrico dei tratti del suo volto tra la folla. In entrambi i casi sono molti i blasonati accademici che danno ancora per scontato l’uso del mezzo, confondendo miseramente il rapporto d’uso immediato del detto mezzo con il raggiungimento dello scopo mediato da esso.

Ma si può davvero ritenere che nell’algoritmo risieda la stessa matrice d’uso del bastone? Oppure la distanza della tecnologia dallo strumento eso-somatico è tale da differenziare la ragione immediata d’utilizzo del bastone da quella dell’algoritmo?

Se a quest’ultima domanda si rispondesse di no, l’algoritmo sarebbe ancora un mezzo che spezza il proprio legame esclusivamente con ogni “Io”; se invece si rispondesse di sì, l’algoritmo non è più un mezzo ma qualche cosa di molto diverso che, di inevitabile conseguenza, interromperebbe ogni suo residuale legame pure con tutte le forme sociali del “Noi”.

Due esempi potrebbero descrivere plasticamente questa discussione: A) immaginiamo un primo individuo al quale una fitta boscaglia impedisca l’accesso ad un luogo. Egli decide di spezzare un ramo ed usarlo per farsi largo tra i roghi e raggiungere la propria destinazione; B) immaginiamo un secondo individuo identificato da un algoritmo applicato ad una telecamera che cattura tutte le immagini di chi entra in un aeroporto. Egli pensa pertanto di creare ed utilizzare un nuovo algoritmo che possa impedire la sua re-identificazione in quel luogo.

Si può ritenere che il rapporto e la ragione d’uso dei mezzi sia identica nell’ipotesi A e nell’ipotesi B? Io risponderei di no perché, in primo luogo, nell’esempio della telecamera è certamente esclusa ogni dimensione individuale in quanto drasticamente escluso l’‘‘Io’’ a partire dalle possibilità d’uso mediato di ciò che alcuni definirebbero ancora ‘‘mezzo’’ al pari di un bastone.

L’Io è vicino al bastone quanto la tecnologia al Noi post-primario

Non è dunque un caso che l’Io e il ‘‘Noi’’ primario, per come descritti, abbiano connotati simili, se non anche insiti nell’uso manuale del bastone e della pietra e che, invece, il ‘‘Noi’’ sociale post-primario si limiti a trovare una propria collocazione adiacente all’algoritmo tecnologico senza però averne i connotati.

Ancora una volta vanno date delle spiegazioni e fatte delle distinzioni per evitare di sovrapporre concetti e temi che, sebbene in apparenza calzanti, convincenti e spesso utilizzati da abili oratori, sono in realtà errati, anacronistici e fuorvianti.

Si ritiene da oltre duemila anni che lo scopo perseguito sia ciò che caratterizzi ogni azione: se si corre per sport è una cosa; se si corre per fuggire da un predatore il movimento della corsa trova il proprio fondamento in tutt’altra ragione. Il differente scopo perseguito correndo assegna un senso diverso al movimento e qualifica differentemente l’azione seppur identicamente contrassegnata dal correre.

Il citato paradigma si cala facilmente su altri esempi: l’azione del camminare dal punto A al punto B per recarsi al lavoro è qualificata dallo scopo perseguito che è, appunto, quello di poter lavorare. Se si utilizzasse un’automobile per spostarsi dal punto A al punto B nulla cambierebbe. L’utilizzo dell’automobile mantiene lo scopo di raggiungere il posto di lavoro più rapidamente. Il mezzo, sebbene largamente tecnologico, non incide sullo scopo dell’azione che rimane quello di raggiungere un certo luogo per lavorare.

Ove però si incrementasse la potenza della tecnologia e, soprattutto, il rapporto d’uso con la stessa, il paradigma in argomento si incepperebbe. Basti pensare al lavoro da remoto (“smart working”) ed ecco che, rispetto all’esempio del tragitto da A verso B percorso per lavorare, si metterebbe immediatamente fuori gioco l’azione insita nello spostamento che, infatti, sparirebbe dallo scenario qualificatorio. Lo scopo non qualifica più l’azione personale poiché viene meno lo spostamento finalizzato ad ottenere lo scopo. Esiste solo il mezzo ed il lavoro da svolgere senza alcuna ulteriore azione che non sia quella di lavorare per il tramite del mezzo.

E l’azione non è l’unica protagonista ad uscire di scena.

Nell’ultimo esempio, infatti, oltre all’azione dello spostamento, viene pure meno la dimensione sociale del “Noi” che, di conseguenza, sconfina sempre di più oltre un “Noi” post-primario tanto funzionale quanto artificiale poiché esprimibile solo mediante il mezzo tecnologico che, dunque, diviene qualche cosa di più e di diverso dall’uso dello strumento eso-somatico. Viene in definitiva opacizzata la differenza tra mezzo e scopo: si tratta d’una eteroclitica e graduale eliminazione della ancestrale differenza. Niente affatto “poca cosa”!

L’intelligenza artificiale studiata e spiegata a bastonate

A questo punto pare indispensabile una riflessione su ciò che attualmente si potrebbe considerare la più avanzata tecnologia: quella che dal 1956, in un campus universitario statunitense, venne pubblicamente definitaintelligenza artificiale”.

Sono subito da accantonate le molte variegate “incrostazioni” di pensiero formatesi intorno alla locuzione ‘‘intelligenza artificiale’’ in oltre mezzo secolo di narrazioni fantasiose, emozionanti, prive di senso e ben lontane dall’osservazione attenta di ciò che c’è ed emette un’intensa luce sull’”Io” e sul “Noi”.

Discutere di questo tema partendo dalla definizione convenzionale di “intelligenza artificiale” significherebbe allontanarsi dall’argomento centrale poiché, dopo poche battute, ci si dovrebbe mettere d’accordo sul fatto che, in realtà, si intende(rebbe) parlare delle “macchine decisionali’’ che, esattamente come l’automobile usata per evitare di percorrere a piedi un tragitto, consentono di raggiungere uno scopo più velocemente e più esattamente di quanto senza di esse si potrebbe fare. Se, del resto, non fosse questo l’oggetto reale della discussione, come dovrebbe qualificarsi l’intelligenza di Dolly, la pecora clonata nel 1996 e vissuta per sette anni?

Chi, ad esempio, sostiene ancora che l’intelligenza artificiale sia stupida non solo si esonera dallo spiegare che cosa si debba o si possa intendere per intelligenza, e come e perché si dovrebbe decidere il grado di presenza della stessa, ma tende a conferire una certa dose di intelligenza (in senso umano o animale) alle macchine per finire quindi nell’implodere miseramente nella negazione della propria premessa maggiore.

Posto che si potrebbe facilmente mettere in dubbio l’esistenza di una ‘‘intelligenza naturale’’ da contrapporre a quella definita ‘‘artificiale’’, si dovrebbe muovere il discorso da una ben diversa circostanza osservabile: l’intelligenza convenzionale, anche nella forma più elementare, non può provenire dal sé primario. Essa richiede sempre la dimensione plurale di un “noi”.

Pare indubbio, del resto, che se un neonato venisse semplicemente nutrito ed assistito nei bisogni elementari, lo stesso non acquisirebbe alcun grado di intelligenza sociale o convenzionalmente apprezzabile. L’intelligenza degli esseri umani, pertanto, è ‘‘artificiale’’ poiché si acquisisce mediante un lungo processo sociale organizzato ed indotto.

Una delle trascurate differenze tra le due (di per loro improprie) definizioni di intelligenza – “artificiale” e “naturale” – non risiede affatto nell’azione e nello scopo che con esse si intende ottenere, bensì nella conformazione materiale di ciò che consente l’azione decisionale sottesa ad ogni genere di ‘‘intelligenza”. Usando il linguaggio tecnologico si potrebbe perciò sostenere che l’ontologica essenza della differenza tra le varie ‘‘macchine decisionali’’ non risiederebbe nel “software” ma nell’hardware delle stesse, quale mezzo materiale che consente di esprimere delle decisioni in vista di scopi.

Si tratta di una differenza più marcata di quanto si potrebbe d’acchito pensare. Essa, a ben vedere, rimane profonda anche se posta di fronte al novero delle emozioni umani quali la compassione, l’odio, l’amore, la paura. Sentimenti ed emozioni che, comunemente, caratterizzerebbero l’umanità differenziandola da tutto ciò che potrebbe essere in grado di prendere delle decisioni: ossia, segnatamente, da ogni macchina che decide un’azione. Differenze ancora reali e che, tuttavia, ove indagate tenendo come sfondo l’essenza delle stesse, vanno ad assottigliarsi parecchio.  In tal senso può essere fatto un esempio su tutti.

Se più di un direttore dei campi di concentramento allestiti nel corso della Seconda guerra mondiale ha confermato di non aver avuto il compito di provare alcunché e, dunque, di non aver provato nulla nel mentre ordinava l’uccisione dei deportati, significa che nemmeno i sentimenti e le compassioni sono naturali. Anche tali sentimenti vanno pertanto “educati” mediante un costante processo sociale indotto. Pure la paura dipende da ciò. Può essere provata, oppure no. Ma la paura è pur sempre da porre in relazione ai presupposti del sapere o alla forza di un indottrinamento religioso o militare. È anch’essa ‘‘innaturale’’ e da rimettere in questione tenuto conto dell’educazione e delle variegate circostanze d’istruzione sociale.

Infatti, nel corso della storia conosciuta, ci sono stati molti uomini che hanno meccanicamente deciso in modo brutale per altri e pure per sé stessi senza provare alcuna vergogna o incontenibile paura, poiché ben istruiti a farlo. Si sono comportati esattamente come un algoritmo a cui è stato impartito l’ordine di escludere automaticamente dal credito bancario o dalle cure mediche alcune persone in base a variabili presupposti indotti.

In questo ragionamento manca, però, la principale amica dell’anzidetta assottigliatasi differenza. A chi scrive non sfugge che a reggere il presidio ad una ulteriore grande differenza tra le due presunte “intelligenze” vi sarebbe la cosiddetta “creatività”. Pressoché unanimemente esclusa dal processo decisionale delle ‘‘macchine’’ e riservata a favore esclusivo degli esseri umani.

Anche questa supposizione convenzionale, tuttavia, vacilla. E vacilla molto soprattutto se rapportata alla reale dimensione dell’‘‘Io’’ e del ‘‘Noi’’ e delle regole tecnico-sociali ad essi sottostanti. La messa in questione di tale formidabile presidio si ottiene ponendo due domande. Infatti, bisognerebbe chiedersi chi decide cosa sia la creatività e, ancor prima, se la stessa possa davvero essere sottoposta ad una decisione. Le risposte a tali domande si trasformano in mere opinioni senza sostrato.

Appare quindi molto più realistico tratteggiare un genere di creatività partendo dalle premesse dell’azione progettata per realizzare lo scopo prefigurato.

Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se sarebbe stato ritenuto socialmente corretto progettare un calcolatore utilizzando la funzionalità dei telai tessili e la forza del vapore? Charles Babbage, che a metà del 1800 lo fece, risponderebbe di sì! I costruttori dei telai e degli ingranaggi a vapore avrebbero risposto di no protestando l’uso ‘‘folle’’ dei loro mezzi poiché, in primo luogo, ritenuto errato.

Ecco, di fondo, la creatività di Mr. Babbage è composta da due macro-ingredienti: i) l’educazione sociale dallo stesso ricevuta; ii) il ritenuto ‘‘folle’’ errore di pensare di usare i telai e il vapore per creare il primo computer.

E quindi? Si sta ancora parlando di un concetto di creatività non traslabile nei microchip decisionali di un moderno computer potenziato da algoritmi? Credo di no.

Gli elementi d’educazione tecnologica di cui dispone il computer sono invero paragonabili a quelli di Babbage. E gli algoritmi possono commettere degli errori piuttosto bizzarri. Sono ben note, ad esempio, le immagini digitali che hanno riprodotto delle carpe dotate di dita umane a causa di un processo di ‘‘machine learning” che ha erroneamente scansionato fotografie di pescatori che tenevano tra le mani il pescato. Anche questo è un errore “folle” o, se vogliamo dirla utilizzando le parole degli informatici del Dartmouth college di Hanover, in un agosto del 1955 nel New Hampshire, ‘‘bizzarro’’ e, dunque, creativo.

Non credo occorra sorreggere quest’ultima osservazione con la miriade di errori commessi e che, nel corso del tempo conosciuto, hanno portato a nuove e ‘’creative’’ funzionalità tecniche ovvero, più in generale, a rivoluzioni di tipo tecnico-sociale o ‘‘scientifico’’.

Anche l’errore, infatti, quale essenza della creatività nel senso descritto, ha percorso e percorre intensamente l’‘‘Io’’ e il ‘‘Noi’’ di ogni individuo contrassegnandoli mutevolmente con spinte imprevedibili, contraddittorie e, in ogni caso, sempre bizzarre rispetto alle regole tecnico-sociali in quel momento educatamente praticate.

di Lorenzo TAMOS

 

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