Dati, tecno-capitalismo, comunicazioni digitali: agōn

Svegliatevi e vivete! La vita fa male perché per vivere c’è bisogno di essere attenti. Se vivete in maniera inconscia la vita è destinata a essere un’esperienza dolorosa, un’agonia”: così ci avverte Osho Rajneesh [link] dall’India dello scorso secolo. Ed è vero. L’inconsapevolezza è l’anticamera dell’agonia. 

Ma non è detto che sia sempre così.  

L’agonia, difatti, dipende anche dalla consapevolezza dell’impossibilità di poter agire sulla realtà inesorabile, oppure dalla constatazione del proprio declino a cui si risponde con la ferocia di chi rifiuta di accettare l’impotenza di agire su ciò che si vede avanzare, ovvero a causa di coloro che non possono più essere tenuti sotto controllo avendo come sfondo l’invadenza del reale.

E’ da questa agonia che nasce l’atavica pulsione di chi detiene un potere ad astrarre dal reale per forzare gli altri alla sottomissione e in ciò, assente l’autorevolezza, vengono a gioco gli strumenti che, come direbbe Trasimaco a Socrate nel platonico porto del Pireo, sono efficaci a giustificare il governo autoritario in quanto “utile al più forte”: non importa se eletto “democraticamente” o meno, se politico o economico, se palese o celato, poiché anche la “democrazia” si traduce pur sempre nell’“utile del più forte” [link], soprattutto quando essa rimane a lungo in scomposta agonia.  

E se agōn è lotta, gara, disputa tra due o più forze per la sopravvivenza o la dominanza vitale delle une sulle altre, i protagonisti di essa non ne scoprono mai le ragioni di fondo né desiderino conoscerle sebbene ne inscenano la falsa rappresentazione attraverso una narrazione usata sia come strumento per vincere, o tentare di vincere, sia per raccontare l’esito della lotta.

L’agonia si subisce o si provoca ma non si accetta né si può o si vuole davvero indagare nelle sue cause di fondo, quelle reali: chi lotta, prima di tutto e su tutto, è parte esistente ed ancora vitale della disputa che crea e deve pensare a lottare con ogni strumento che gli consenta di prevalere sulla forza che si trova a contrastare. Tutto il resto gli pare inutile, impossibile: anzi, non gli appare affatto.   

Per dirla con Carlo Sini [link], tra gli strumenti basilari e più forti di cui dispone il genere umano nelle sue variegate forme di aggregazione e di contrapposizione vi è la narrazione orale (la parola, il vocalizzo, il discorso) e scritta (il segno, il disegno, la grafia): strumenti ancestrali e potenti della tecnica primaria, usati “da sempre”, soprattutto dai “dominanti”, in ogni tipo di disputa che nasce per mantenere, modificare o eliminare un potere, ovvero dalla necessità di non farsi schiacciare da esso. 

Oggi questi strumenti sono meno efficaci, non più in grado di rispondere altrettanto bene allo scopo per cui sono stati usati con successo in millenni di vertenze sociali per ingannare la forza che si anelava contrastare, o la cui nascita si voleva impedire.

È sempre meno efficace descrivere parzialmente ciò che potrebbe essere reale; prescindere da quel “reale, in quanto misurabile” su cui Max Planck [link] poggiava la propria logica matematica; ingigantire o sminuire alcuni accadimenti o concetti a discapito di altri, giusto per evocare uno dei trentotto stratagemmi di Arthur Schopenhauer [link] in “L’arte di avere ragione”. Nulla di tutto questo funziona più così bene, e gli esempi sarebbero moltissimi, ma risulterebbero pur sempre depotenziati rispetto all’uso che se ne faceva in passato. 

Anche se non è facile convincersene, la recente scomposta reazione di alcuni sistemi politici ed economici, o almeno di quelli occidentali, è causata dall’indebolimento della capacità degli strumenti di comunicazione di artare la rappresentazione del reale persuadendo il maggior numero di persone: possibilmente tutte. 

È uno schema che sopravvive forzatamente. In esso rimane essenziale che la narrazione del reale sia a favore delle utilità a priori sposate da una certa classe politica o di potere. Non è mai escluso che alcune di queste utilità possano coincidere con quelle di una parte di cittadini amministrati privi di potere ma – come ci diceva Emanuele Severino [link] in un pungente paragrafo del suo “Capitalismo senza Futuro” – si tratta ormai di occasionalità assai rare, sempre più rare.  

Bisognerebbe sforzarsi di comprendere questo passaggio cruciale, altrimenti si continuerà a discutere della “lotta” o, peggio, del racconto che dell’agonia è fatto da chi la partecipa ma non delle cause profonde che la provocano e nemmeno dei cruenti tentativi di chi ha potere di resistere passando la misura, cercando un nuovo oggetto da modellare attraverso una sempre più esagerata narrazione di esso che, come accadeva nel passato, non sia verificabile da chi si vuole dominare. 

Occorre compiere un balzo antropologico per comprendere l’uso e l’abuso delle tecniche di rappresentazione del reale: tecniche tanto potenti quanto segnate da un costante declino che si può intravedere nella loro recente metamorfosi.

Il pensiero scientifico che anima l’antropologia è (forse il più) dinamico poiché deve confrontarsi con l’incessante scoperta di nuovi reperti che, di fondo, mettono in discussione, modificandola, la narrazione preesistente del rapporto dei primi “ominini” [link] con la tecnica. Perché quando si parla di umani entra in scena la tecnica, sia essa arte, guerra, difesa, casa, tomba, comunicazione o narrazione dell’esistente ma anche dell’immaginario, prima individuale e poi collettivo.

Difficile dire quale sia stato l’originario rapporto tra le prime forme di comunicazione o di rappresentazione scritta e orale del reale e dell’irreale e, soprattutto, sapere quale delle due forme di esternazione sia apparsa per prima. Sul punto crediamo, però, che un albero sia stato sempre considerato tale, perlomeno nella sua materialità, in quanto esistente, visibile, da scansare durante una corsa, o da usare, ad esempio spezzando un ramo per farne la propria difesa. L’albero, al pari della prima raffigurazione di un animale sulla roccia, ha avuto il significato “già scritto” portato dalla sua stessa esistenza. La vocalizzazione, sebbene ancestrale, ha invece dovuto necessariamente seguire un lungo percorso di senso e di riconoscimento comune di significato poiché, a differenza dell’albero, non poteva dipendere solo dal fatto di esistere nel suono vocale emesso dai primi “ominini”.

Ciò che pare certo è che, sino al V sec. a. C., le “città Stato” (le “poleis”) della grecità vivevano solo di oralità, presenza fisica, retorica, ripetizione corporale del rito in omaggio al mito. Il tutto per trasmettere il sapere e, quindi, in definitiva, per delineare forme di potere.  

In questa civiltà l’oratore era tale in quanto il suo corpo “narrante” aveva influenza sugli altri corpi colà presenti, menti comprese. Ciò, in un certo senso, si verificava proprio come con l’albero che, a far data da un paio di milioni di anni prima, era scansato o sfruttato in base al significato materiale che lo stesso comunicava a chi lo trovava di fronte a sé. Il paradigma di base era identico: la rappresentazione di un significato passava necessariamente dalla presenza di una entità fisica, fatta di materia.  

Ma la tecnica dell’oralità greca, fondata sulla memoria e sulla fisicità, ha dovuto cedere alla razionalità della tecnica. Infatti, da Platone in poi, sono apparsi i primi taccuini (“hypomnemata”) in cui gli appunti scritti cominciarono a prendere il posto dell’oralità. La presenza fisica del maestro che aveva visto, compreso e, dunque, poteva sapientemente raccontare ed influenzare gli altri corpi con il proprio corpo, non era più indispensabile. 

Un hypomnemata si poteva tenere in mano o in una borsa, rileggere ovunque. In esso si poteva annotare la socialità e, soprattutto, il pensiero trascritto di una collettività senza attenderne la ripetizione ufficiale e rituale da parte della civitas. Da qui lo shock storico e la svolta: prevale la forma scritta del sapere sulla oralità fisica della sapienza. Svolta da alcuni ritenuta a torto irreversibile: basti del resto pensare al recupero dell’oralità e, se non del corpo materiale, almeno dell’immagine di esso nel grande mondo dei filmati e dei webinar che animano la rete toccando oggi il  “Metaverso” [link].   

La potenza di tutti gli strumenti di comunicazione, orali, visivi, corporali e scritti, è rimasta a lungo insuperabile. Bastava usarli con la giusta malizia. Sono note le antipatie che Platone mostra nei suoi dialoghi [link] verso i sofisti ed i retori che con tali mezzi influenzavano il popolo ateniese. Invero, il mondo era “immenso”, inesplorato e, ove esplorato, rimaneva comunque sconosciuto: esso si prestava bene alla narrazione a sostegno dell’utile di chi lo sapeva raccontare meglio. I dati, le notizie e le riprove del vero, o quanto meno del verificabile, erano spesso inaccessibili e, quando accessibili, tardive o enigmatiche.  

Da molti anni il mondo è in rete, e forse è la rete. 

E la rete non è solo “inquinata dall’inutile pensiero di milioni di idioti che prima parlavano solo al bar”, come ha sostenuto Umberto Eco [link] quando nel 2014 criticava, non a torto, l’esondazione dell’informazioni della società della rete che, al pari del corposo inserto della domenica del New York Times, si era trasformata a suo dire in un maremagnum inaccessibile. 

La c.d. “infosfera”, oggi, ha azzerato tempo, distanze e confini. 

La tecnica consente l’immediata connessione a social-network e a milioni di siti web gravidi di notizie e documenti sempre più facilmente reperibili in modo specifico. Se non la piena verificabilità scientifica (non esclusa a priori), almeno il modo di poter confrontare una serie infinita di informazioni, analisi, opinioni, mappe, fotografie, filmati di luoghi, cose e persone, è possibile.   

Forse è questa la ragione per cui le numerose “Echo Chambers” (camere dell’eco) di cui offrono spettacolo molti talk show televisivi non sono più in grado di influenzare realmente la psiche collettiva, nonostante in queste camere si ripeta all’infinito un’unica voce: quella “dell’intolleranza fanatica degli inquisitori” disposti ad accettare esclusivamente voci identiche alle proprie. Peggio di quanto potrebbero fare i più discutibili influencer della rete, visto che i media tradizionali si rivolgono ad un pubblico prevalentemente anziano, o non in grado di accedere ad altre informazioni.  

La pluralità dell’informazione è, e rimane, di gran lunga preferibile alla mera pretesa “qualità” della stessa poiché il fattore essenziale che rende di qualità l’informazione è proprio la pluralità di essa: in assenza di pluralità l’informazione si trasforma in una sorta di “religione monoteista”, o poco più.  

Eppure, il depotenziamento dello strumento che da sempre è stato utile “al più forte” non uccide affatto chi lo sta usando con scarsità di risultato, ne provoca solo una lenta agonia. E se lo strumento che ha sempre accompagnato bene la narrazione distorta, accomodata, falsata, non funziona più così bene, due sono le possibili reazioni del neo-agonizzante: i) l’uso diretto della forza materiale, ovvero ii) l’esasperazione della menzogna da indirizzare verso situazioni e tesi apparentemente verosimili, lontane dal verificatore, non direttamente sconfessabili.  

La prima alternativa sarebbe impraticabile poiché, per essere efficace, richiederebbe una posizione di egemonia pressoché totale.  

Il secondo stratagemma è quello preferibile e che, però, per attuarlo, “ci vuole la massima impertinenza: ma nella realtà succede: e c’è gente che tutto ciò lo pratica per istinto” (A. Schopenhauer, [link]). La reazione istintiva è però sempre la stessa. Per rafforzare di nuovo lo strumento si deve spostare il campo delle possibili indagini sempre più lontano da chi le potrebbe svolgere. Se, ad esempio, un potere non è più giustificabile narrando la presenza di una minaccia vicina all’abitazione di chi ne dovrebbe subire gli effetti, allora si sposta la fonte del pericolo sempre più lontano, tanto da impedire la verifica della narrata minaccia o renderla difficilmente discutibile.

Tale gioco di spostamento trova però un limite: la moderna tecnica

Oggi le persone non hanno più in tasca il taccuino degli appunti di platonica memoria, bensì lo smartphone connesso alla rete e, quindi, potenzialmente, ad una variegata spiegazione del mondo sempre più confrontabile. L’arte della persuasione calata dall’alto comincia di nuovo a non funzionare nel moderno contesto. E così il ‘‘cittadino’’ può passare dalla tolleranza verso la restrizione imposta, alla contestazione ed, infine, alla ribellione. A questo punto i sistemi di potere occidentale non egemoni sono costretti ad artare la narrazione, esasperandola, mescolando il terrestre all’extra terrestre: l’inquinamento; lo sfruttamento delle risorse ittiche; i buchi nell’atmosfera; il cambiamento climatico; il sole; il cosmo; l’universo. 

La nuova “ricetta” è sempre pronta. 

Si parte dal vero constatabile, l’inquinamento (ad es. delle città, per cui nulla è stato fatto), lo scioglimento dei ghiacciai; la pesca intensiva etc., unendovi due ulteriori “ingredienti” e il solito “condimento”: la colpevolizzazione delle genti innocenti ed impotenti rispetto ai danni provocati da meno di cento anni di “rivoluzione industriale” (e di venerata “crescita”); la tracotante attribuzione al genere umano della capacità di controllare fenomeni incontrollabili e, quindi, a contrariis, pure la responsabilità di averli provocati, per quindi giungere alla giusta alchimia tra vero, verosimile, non direttamente verificabile e, soprattutto, con ciò che può rimanere a lungo patteggiabile sul piano scientifico tra tesi opposte e, in ogni caso, confinate lontane dalla comprensione e dalla prova delle cause reali dei fenomeni ab initio prescelti. E’ qui, infatti, che una certa politica ha gioco facile a stabilire ed imporre “il vero” ed “il falso”, modellandone la misura in base a schemi ed interessi di potere geopolitici da cui trarre spunto per creare la comunicazione di nuovi pericoli: ieri quello sovietico degli arsenali nucleari, oggi quello della Cina, poco incline a “salvare il mondo” rispettando il calendario della c.d. “green economy” stabilito dal potentato occidentale ossia, di fondo, dalle strategie del congresso federale degli Stati Uniti.  

Anche questa nuova rappresentazione pseudo-scientifica e quasi sacerdotale di una serie di problemi a priori stabiliti essere tali nelle cause e negli effetti, presto dovrà di nuovo fare conti con la tecnica che potrebbe rianimare, o almeno accelerare la scienza basata sull’osservazione imparziale, sì animata dal tecnicismo ma sempre indipendente e svincolata da esso. 

La tecnica non dovrebbe costituire l’anima della scienza così come, invece, ci spiega da tempo un abile ed affascinante oratore contemporaneo, Umberto Galimberti (link).

Dovremmo infatti pretendere che tecnica e scienza restino (o tendano a restare) ben separate anche nella loro intima interazione. 

È sempre da preferire chi sappia praticare (o immaginare) la scienza slegata dalla comodità della tecnica. Difatti, se scienza e tecnica fossero indistinte – e accade spesso che già lo siano – anche la scienza si piegherebbe totalmente alla mera razionalità della funzionalità tecnica per, appunto, come ci dice Galimberti, “raggiungere scopi con l’impiego minimo di mezzi”.  

Ma l’osservazione scientifica che si faccia carico degli enti di natura – umani compresi – non può essere orientata “dal” e “al” raggiungimento del mero fine perché si farebbe corrompere da esso per come reso arrivabile dalla tecnica. In tal modo anche il ragionamento e il pensiero della scienza diverrebbero fondamentalmente tecnici: per lo “scienziato” conterebbe solo il risultato e non tanto gli effetti provocati dal modo di raggiungerlo. Ciò è molto pericoloso poiché nessuno è stato mai realmente in grado di prevedere (né, forse, interessato davvero a prevedere) i reali effetti dell’uso della tecnica. Meno che mai quelli che essa può produrre a lungo termine.   

Mitridrate, re del Ponto, circa cento anni a. C., utilizzò la tecnica dell’auto somministrazione di piccole dosi di veleno come “pharmakon” per ottenere la propria immunizzazione. Egli si limitò a seguire il pregiudizio della scienza medica praticata e custodita nei suoi segreti inaccessibili dagli sciamani: gli Agari. Il metodo funzionava raramente, male e con pochissime sostanze tossiche aveva un qualche ridotto effetto immunizzante. Per contro sempre certe erano le gravi conseguenze collaterali, anche mortali. E tuttavia la memoria di questo sbaglio tecnico rimase e, come sempre accade con la tecnica, indifferente al percorso ma tesa allo scopo, lo scopo venne raggiunto, prima in Cina e, poi, in Europa contro il vaiolo. 

Edward Jenner, nel 1796, quando ancora il vaiolo colpiva a morte l’Europa, si “limitò” ad osservare a lungo e (ispirato da Mary Montagu, prima sostenitrice delle pratiche ottomane della c.d. vaiolazione da “punzecchiamento” del derma) quindi vide che le mani di una contadina inglese riportavano le stesse lesioni presenti sulle mammelle dei bovini che la stessa mungeva. Da qui la giusta intuizione e quindi la prova: i contadini che contraevano il vaiolo bovino risultavano immuni anche a quello umano, molto più aggressivo. Ed il piccolo James Phipps, a soli nove anni, ne dovette dare la prova facendosi prima contagiare col pus di una vacca infettata dal vaiolo e, solo dopo tre settimane, da quello umano, rimanendo totalmente immune.  

Capitalismo, politica, scienza, tecnica, guerra: lasciamo ai lettori trarre delle conclusioni sul cruciale rapporto che intercorre tra le stesse e che ancora influenza significativamente la materia del trattamento dei dati personali.  

(Lorenzo Tamos)

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